Attualità e Politica
04/06/2019 | 11:05
04/06/2019 | 11:05
ROMA - L’Associazione per l’integrity degli operatori online europei – Essa – cambia immagine, nome e strumenti di comunicazione. D’ora in poi, si chiamerà IBIA (International Betting Integrity Association) continueando a svolgere un ruolo di leadership nello scenario europeo e - conferma il segretario generale Khalid Ali in questa intervista concessa ad Agipronews in esclusiva per l’Italia - anche fuori dell’Europa. Sono ormai quasi 50 i marchi rappresentati nell’associazione, che contribuiscono ad un sistema di monitoraggio esteso ed efficiente che collabora con Leghe sportive e forze di polizia.
Ali, perché avete sentito il bisogno di rivoluzionare la vostra immagine?
Essa rappresenta i leader del settore in Europa ma il settore è cambiato molto negli ultimi sei-sette anni, sanno aprendo nuovi mercati in India, Usa, America latina e c’è un evidente processo di consolidamento tra operatori in corso. Le scommesse stanno diventando sempre più globali, tutti stanno prendendo licenze anche fuori dall’Europa. Per questo, l’associazione doveva diventare “mondiale” e non più “solo” europea. Credo che il nome scelto – International Betting Integrity Association – descriva benissimo quello che siamo adesso. Abbiamo anche un sito nuovo, che fornisce un’immagine chiara della situazione del match fixing nel mondo. Il report 2019 appena pubblicato è il primo firmato dal nuovo brand. In ogni caso, rimaniamo un’associazione di monitoraggio e analisi dei flussi di scommesse, senza nulla di commerciale. Dal 2017 abbiamo lanciato oltre 700 allarmi alle autorità – e nel 2018 il 42% dei nostri alert proveniva da fuori Europa.
Qual è lo scenario descritto dal vostro report sul primo trimestre 2019?
La mappa ci dice che abbiamo avuto 37 allarmi nei primi tre mesi dell’anno: 25 dall’Europa, 7 dall’Asia, 1 dall’Africa, 3 dal Nordamerica, 1 sugli e-sports e quindi senza una collocazione geografica. E’ stato uno dei risultati più bassi degli ultimi anni. Basta fare un confronto con il primo trimestre 2018, quando ci furono 50 allarmi. Il motivo del calo sta nel tennis, che ha registrato 37 per cento di “alert” in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Anche la Tennis Integrity Unit (TIU) ci ha confermato che il fenomeno è in calo ma va ricordato che lo scorso anno ci fu un grande scandalo, quindi il numero potrebbe non essere particolarmente indicativo, vedremo nel secondo quarto. Ma se il tennis è in calo, gli altri sport aumentano.
L’Italia, nel quadro internazionale, come si inserisce?
Il vostro paese è spesso stato coinvolto in grandi scandali, con giocatori del massimo livello. Dal nostro punto di vista, nel 2018 non abbiamo avuto allarmi sul calcio in Italia. Questo non vuol dire che nulla sia accaduto, intendiamoci, ma solo che i nostri associati non lo hanno segnalato. Abbiamo invece riscontrato 17 anomalie dall’Italia sul tennis lo scorso anno e una nei primi mesi del 2019. E’ chiaro che bisognerebbe vedere anche cosa succede nel retail, oltre che nell’online. In prospettiva, la mia preoccupazione maggiore per l’Italia è il divieto di pubblicità. Il proibizionismo non è mai una soluzione, anzi un danno per il mercato e un favore agli operatori più spregiudicati: il consumatore deve sempre sapere con chi sta scommettendo. Chi fa pubblicità è anche spesso una grande multinazionale, magari quotata in Borsa e con elevati standard di sicurezza. Per il contrasto al match-fixing, è fondamentale l’elemento dell’affidabilità del bookmaker. Anche i controlli su certi operatori offshore sono impossibili: siamo preoccupati perché altri paesi stanno imitando l’Italia sul tema della pubblicità.
Qual è la sua opinione sul recentissimo scandalo in Spagna?
L’investigazione è ancora in corso. Abbiamo lavorato con la Liga e la Federazione, con cui scambiamo informazioni e notizie su eventi sportivi e scommesse. Non è mai piacevole vedere uno scandalo così ma fa piacere che ci sia stata una azione di contrasto così decisa. In genere il meccanismo è che alcuni intermediari cercano di entrare in contatto con i giocatori più importanti delle squadre per corromperli e procedere poi con il passaggio di denaro contante e le scommesse verso l’Asia. Certo, è deludente vedere giocatori già formati sui rischi del match-fixing compiere ancora questi errori. Però non è una sorpresa: è vero che i giocatori meno ricchi sono più permeabili per motivi economici ma secondo me occorre allargare l’analisi anche ai professionisti – persino di livello “top class” - che sono vicini al ritiro e che ormai non hanno nulla da perdere a compiere qualche illecito.
NT/Agipro
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